Che ho voluto battezzare con il nome di un disturbo neurologico acuto mafugace: una fluttuante alterazione dell’attenzione e dello stato cognitivo.
Perché? Per spiegare il mio stato attuale e la mia situazione mentale. Bombardata com’è da mille input, nozioni e informazioni. Provenienti dai viaggi, dalle relazioni e da una comunicazione sempre più rapida e scattante.
Un lievitato che fa focus su importanti tematiche contemporanee.
Una golosità nata da una riflessione e dalla collaborazione con Varesina Caffè (flash link), maison lombarda che celebra i suoi primi cent’anni di passione.
I patron, Paolo e Stefano Maffina, hanno aperto le porte della loro torrefazione a noi dell’associazione Pasticceri per la Vita, consegnandoci una miscela.
E una missione: realizzare un grande lievitato. Fiero di rendere onore a quella che è la bevanda nera e bollente per eccellenza.
A me è toccata lei: la Kaffee Cream, miscela di arabica (per l’80%) e robusta (per il 20%) pensata per le lunghe estrazioni e per le tazze maxi. Una miscela temeraria, audace e coraggiosa, destinata al mercato nordico e studiata per chiunque abbia voglia di uscire dagli schemi dell’espresso. Una miscela fuoriclasse, dalle nuance bionde, dalla crema consistente e dal gusto morbido. Che vira, prima, verso note agrumate, e poi, verso quelle più tostate.
È nato così un panettone in vasocottura. Pronto a valorizzare gli ingredienti vicini e quelli più lontani. Pronto a disegnare una spirare circolare fra ieri, oggi e domani. Pronto a farsi portavoce di trasparenza, genuinità ed etica ecologica. Ecco il motivo dell’utilizzo del vetro. Per dire decisamente no alla plastica. In favore di un materiale riciclabile e riutilizzabile all’infinito.
Il vaso è griffato Weck, a garanzia di un prodotto libero da sostanze nocive. Un contenitore capace di adattarsi al contenuto, assicurando il mantenimento di tutti gli aromi e una shelf-life molto più estesa nel tempo.
Un vaso da aprire e da scoprire. Ed è a questo punto che una siringa, colma di caffè, viene iniettata nel panettone. Curando il Delirium.
Uova, zucchero, farina, caffè. Perfetto. Ma per il mio panettone al lievito madre non volevo una farina convenzionale. Bensì una farina ambasciatrice di un progetto. Una farina che raccontasse una storia, fatta di terra e di uomini. Non ho avuto dubbi: Petra Evolutiva.
Una farina simbolo di agrobiodiversità. Figlia di un miscuglio costituito in Siria, unendo duemila semi differenti, provenienti da Algeria, Giordania, Iran ed Eritrea. Semi “emigrati” in Sicilia, per essere coltivati in regime biologico, adattandosi al terroir e divenendo una popolazione selezionata dal clima.
Una popolazione in costante variazione ed evoluzione. Perché le spighe alte difendono quelle basse. E quelle basse supportano quelle alte. In un dialogo costante. In una perenne interazione fra il più debole e il più forte.
Una farina che insegna a riflettere. Una farina iconica e polifonica. Che narra di integrazione, di contaminazione e di multiculturalità. Una farina che dà voce ai coltivatori, restituendo loro rispetto e dignità. Una farina con l’annata di raccolta del grano in etichetta. Una farina nata dall’incontro fra nord e sud. Fra Molino Quaglia e gli agricoltori di Simenza – cumpagnìa siciliana sementi contadine, capitanata dall’agricoltore-custode Giuseppe Li Rosi.
Terra e tecnologia. Grani originari e un’idea futuristica di agricoltura.
Al bando i canonici canditi. Anche in questo caso ho preferito percorrere un’altra strada. Pronta a virare verso i profumi di mandarino e bergamotto. Gli stessi che si colgono nel caffè. E allora? Mi si è accesa una lampadina. E ho puntato dritto sullo yuzu, agrume giapponese dall’elegante acidità e dall’innata freschezza. Un ingrediente esuberante. Ma pure gentile e garbato.
Yuzu candito s’intende. Targato Castellani, azienda triestina sempre pronta a indagare, cercare e scovare prodotti di altissima qualità. Anche quando vengono da lontano. Anche quando devono fare migliaia di chilometri per incontrare il savoir-faire italiano dell’artigiano. Poco importa, il chilometro corto può andare d’accordo con quello più lungo. Questione di glocalità, di circolarità e di massima flessibilità.
Il caffè regala accenni agrumati. Per poi giungere a quelli più tostati e terragni.
Le fragranze frullano nella mia mente. E boom. Arriva l’illuminazione anche per quanto riguarda la scelta del cioccolato ideale.
Penso all’Africa, alle sue terre aride e a un cioccolato fondente e amaro. No.
Penso al Sudamerica e a un cioccolato dalla tonalità acida e fruttata. No.
Penso che devo andare da un’altra direzione. Sì, devo creare qualcosa di unico. Di mio. Partendo però da un grande cioccolato. Firmato Valrhona.
Il Waina si fa avanti. Bianco. Anzi, beige, vista la presenza dello zucchero di canna biondo. Un cioccolato dalle sfumature di latte e panna, esaltate dai baccelli di vaniglia bourbon. Un cioccolato biologico. Realizzato partendo dalle migliori materie prime certificate del commercio equo e solidale. Un cioccolato etico. Sostenibile.
A lui ho aggiunto una purea di frutta secca. Noccioline americane, per l’esattezza. Così da ottenere un innovativo “gianduia alle arachidi”.
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